top of page

MISOS (l'odio)

Aggiornamento: 11 dic 2020


Misos, il demone dell'odio
Misos nacque intorno al 2002 come serie di illustrazioni, ma nel frattempo maturava la storia di seguito.


1


Marco non avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe stato il primo di una lunga serie. Stava tornando dal supermercato. C’era andato lui perché la Molly doveva portare Alessandro e Ginevra dai nonni. Quella sera avrebbero festeggiato il loro decimo anniversario con una bella cenetta al lume di candela, ma soprattutto senza i marmocchi tra i piedi. Così, Marco si trovava ora nel suo Cayenne nero, con i sedili di dietro pieni di borse traboccanti di roba. Aveva speso quasi trecento Euro, perché oltre alla solita spesa della settimana, era andato da Costantino a prendere il pesce. Era caro, ma aveva il miglior pesce della città, gli arrivava dritto dal mare, perlomeno così diceva.

In quell’istante, Marco era fermo al semaforo di Corso Porta Nuova, quando un sinistro mal di testa si faceva spazio nel suo cranio. Strano, pensò, perché fino ad ora si sentiva benissimo, brioso e festaiolo, pronto a circondare la Molly con le dovute attenzioni. Ma quell’emicrania saliva vertiginosamente, fino a diventare opprimente, insopportabile. Era così potente, che Marco fu costretto a portarsi le mani al cranio per impedirgli di esplodere. Senza accorgersene, in un istante di estrema sofferenza, lasciò andare la frizione, l’auto si spense, scattò in avanti e andò a sbattere col contro il paraurti posteriore di una Fiesta bianca, causando un grave tonfo e spingendola in avanti di qualche metro. Il tizio della Fiesta scese immediatamente dall’auto, scosso dall’inconveniente e con le palle che gli giravano. Era un tizio alto e vestito di nero, con i capelli lunghi oltre le spalle. Si recò subito dietro alla sua auto per constatare il danno che quel cretino sul suv gli aveva provocato: il paraurti era sfasciato in tre pezzi, uno dei quali penzolava sulla sinistra; la targa era accartocciata a terra; e il baule era parecchio ammaccato in dentro. Porca troia, pensò il ragazzo coi capelli lunghi, strofinandosi le mani sulla faccia, saranno duemila Euro di danno! Marco era ancora in auto, intento a stringersi la testa onde evitare che saltasse in aria, nemmeno si era accorto di quello che era successo. Ma ci pensò il ragazzo coi capelli lunghi a farglielo presente, bussandogli al finestrino.

— Hey! — gli disse incazzato, — Coglione, cosa cazzo fai?

Marco sembrava non dargli ascolto, stava rantolando col capo chino sul volante, le mani fra i capelli a stringersi le tempie.

— È inutile che piangi! — proseguiva il ragazzo, — Adesso scendi e mi firmi la constatazione! Hey, coglione! Dico a te! Mi senti?

Ma non c’era proprio verso! A vedere la scena da fuori, sembrava che l’autista del suv fosse un cagasotto che piagnucolava sul volante. Al ragazzo coi capelli lunghi dovette sembrare una reazione piuttosto eccessiva.

— Ma guarda te ‘sto cazzone!

Intanto era sopraggiunto il verde e la gente si stava muovendo, scansando il Cayenne e la Fiesta in mezzo alla strada. Soltanto un tizio pelato su una Peugeot rossa si fermò a chiedere se avessero bisogno di aiuto.

— Bisogno di aiuto? — chiese.

— No grazie, non è successo niente… — rispose il ragazzo coi capelli lunghi, — È che questo se ne sta lì a piangere come un fesso!

— Aprigli la portiera e tiralo giù a pedate! — gli disse il tipo pelato sulla Peugeot.

Il ragazzo coi capelli lunghi dovette trovarla un’ottima idea. Afferrò la maniglia della portiera del suv e la tirò bruscamente, sperando fosse aperta. La portiera si spalancò! Marco era ancora chino sul volante con le mani sul capo, mugolava e soffiava fra i denti. Forse ha preso una brutta botta, pensò il ragazzo con i capelli lunghi. Eppure gli sembrava strano, perché quello non era che uno stupido tamponamento da fermi. O forse, aveva l’assicurazione scaduta e per questo era nel panico. Che gente!, pensò, vuoi vedere che adesso mi tocca spaccargli la faccia!

— Hey, amico! Ci sei? Mi hai sfasciato il culo della macchina col tuo carro armato di merda. Adesso scendi e mi firmi la constatazione, ok? Altrimenti ti…

Il ragazzo fermò lo sproloquio, perché quel tizio, Marco, non se lo filava di striscio e sembrava non accorgersi neppure della sua presenza. Continuava a stringersi la testa con le mani, a soffiare fra i denti e a stridere come un animale vivisezionato. Insomma, sembrava stesse davvero male! Forse ha una specie di attacco epilettico, pensò il ragazzo coi capelli lunghi, ma non aveva mai visto un attacco epilettico in vita sua, pertanto non ne avrebbe comunque avuto idea. Allungò una mano e gliela appoggiò sulla spalla, come a spronarlo. Poi iniziò a scuoterlo…

— OH! ALLORA! — gli gridò!

Marco si drizzò di scatto. Il ragazzo coi capelli lunghi sobbalzò all’indietro dallo spavento. Marco respirava affannosamente, con la bocca aperta e i denti serrati, dai quali schiumava e sputava piccoli zampilli di saliva ad ogni soffio. Ma quel che scosse di più il ragazzo con i capelli lunghi, erano i suoi occhi, grandi, a palla, completamente bianchi, senza pupille, contornati di un nero scuro e vivido che si annodava nella pelle in mille venature scure che pulsavano e pulsavano sotto la cute. Passato lo spavento, il ragazzo coi capelli lunghi pensò si trattasse del miglior make-up horror che avesse mai visto. Magari quel tizio era del cinema e voleva fargli un brutto scherzo, che gente!

— Hey, bel trucchetto, ma non credere di cavartela.

Marco continuava a fissare il ragazzo, con quegli occhi grandi e bianchi senza pupille. Lo fissava e respirava affannosamente, sempre a denti stretti, schiumando come un cane rabbioso, con un’espressione vuota, inquietante, terrificante.

— S-signore, si sente bene? — chiese a quel punto il ragazzo, deglutendo una noce di saliva.

Iniziava ad avere seriamente paura adesso, non era certo una cosa normale.

— Non c’è motivo di prenderla così male… — proseguì il ragazzo, — Le assicurazioni esistono per questo. Certo, la sua si alzerà giusto di un pochino, ma con la macchina che si ritrova non credo sarà questo gran problema, dico bene?

Marco continuava a fissarlo. Lo fissava e sbavava.

— Signore? Signore…

Il braccio sinistro di Marco scattò in avanti e afferrò il ragazzo per la gola, mentre con la mano destra si sganciò dalla cintura di sicurezza. Scese lentamente dall’auto, braccio teso e mano stretta al collo del ragazzo, il quale cercava inutilmente di divincolarsi da quella stretta brutale. Un ghigno appena percettibile si disegnò su un lato della bocca di Marco. Sembrava stesse… godendo.

Nel frattempo le auto passavano, rallentavano, sbirciavano, ma nessuno aveva intenzione di fermarsi a perdere tempo con quei due. In fin dei conti, si trattava di una disputa fra automobilisti, se la cavassero da soli! Ma all’improvviso, dal lato passeggero della Fiesta bianca, scese una bella sventola, che piuttosto scocciata si lamentò:

— Allora, Elia! Si può sapere cosa cazz…

La ragazza si interruppe non appena vide cosa stava succedendo. Si precipitò verso il suo ragazzo, che stava per essere strozzato da quel tizio con gli occhi strani, a palla e senza pupille, e che schiumava dalla bocca.

— Che cazzo fai! — urlò la ragazza in preda al panico, — Lascialo stare, pezzo di merda!

La ragazza afferrò la mano di Marco, come a cercare di staccarla dal collo del suo ragazzo, che ormai aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite dallo strozzamento. Marco caricò la mano destra e sferrò un manrovescio alla ragazza che la catapultò contro il retro sfasciato della Fiesta. La ragazza si rialzò quasi subito, con la bocca che sanguinava, e si gettò nel traffico in mezzo alle altre vetture, che ora stavano iniziando a fermarsi.

— AIUTO! AIUTO! — urlava piangendo la ragazza, — Sta uccidendo il mio ragazzo, aiuto! — singhiozzava disperata.

Ed ecco che la gente iniziò finalmente a scendere dalle proprie auto.

— Hey, tu, ma sei scemo? — gridò un tizio.

— Hey coglione, ma che cazzo stai facendo? — urlò un altro.

Ma Marco non si fermava, continuava a stringere e stringere e stringere, finché la morsa non fu tale che dal collo si sentì un forte CRACK! e il ragazzo smise improvvisamente di dimenarsi.

Marco lasciò la presa e il ragazzo coi capelli lunghi cadde a terra come un peso morto, i capelli a coprirgli il capo. La sua ragazza gli si gettò sopra disperata, ma non appena cercò di spostargli i capelli dal viso, si accorse che quella non era la faccia del suo ragazzo, ma la sua nuca. Aveva la testa rovesciata all’indietro sull’asfalto.

— ASSASSINO! — urlava, la ragazza, — ASSASSINO!

La gente intanto accorreva, accorreva eccome! Qualcuno aveva già chiamato i carabinieri:

— C’è un pazzo che ha aggredito un ragazzo!

Qualcun altro chiamò la polizia:

— Hanno ucciso un uomo!

Le urla della ragazza si fondevano ora con le urla delle donne e dei bambini spaventati. La gente era sconcertata. Attorno al cadavere del ragazzo con la testa rovesciata sull’asfalto si erano accalcate parecchie persone. Ma Marco rimaneva immobile, gli occhi grandi a palla bianchi e senza pupille, la bocca aperta a denti stretti, respirava affannosamente e fissava tutti, in cerca del prossimo.

Un grosso tizio coi baffoni e ben piantato si avvicinò a Marco con un cric in mano:

— Ti faccio passare io la voglia di ammazzare la gente, figlio di puttana!

Il grosso tizio sferrò il ferro dritto sulla faccia di Marco con tutta la forza che aveva, quasi avesse voluto ammazzarlo. Marco piegò semplicemente la testa in direzione del colpo, senza smuovere di un solo centimetro il resto del corpo. Una striscia di sangue gli colava dalla ferita sulla tempia sinistra, ma non sembrava curarsene, continuava a schiumare attraverso i denti. Aveva appena trovato il prossimo. Il grosso tizio coi baffi si impietrì, pensava che non era normale, che un colpo come quello avrebbe dovuto stenderlo. Che sia un drogato?

Marco si avvicinava a lui deambulando, mentre il tizio coi baffi indietreggiava preso da sgomento. La gente assisteva inerme alla scena, non credeva ai propri occhi, era tutto surreale. E nonostante si trattasse di un uomo solo, esitavano tutti a farsi avanti. Perché, se non si fosse capito, quell’uomo aveva gli occhi bianchi a palla e schiumava come un animale con la rabbia! Il tizio coi baffi intimava a Marco di stare indietro, di non scherzare con lui, che era appena uscito di galera, mica balle! Ma a Marco non gliene importava nulla. Probabilmente non lo sentiva nemmeno. Forse non parlava più la stessa lingua. Perché Marco non era più Marco. La Molly, i bambini, la spesa, l’anniversario, non esistevano più. Ora l’unica cosa a cui Marco pensava era uccidere, tutto qui. Il tizio col cric non volle saperne di farlo avvicinare ulteriormente, temeva che gli potesse attaccare qualche brutta malattia, magari l’AIDS, non si poteva mai sapere con certi elementi. Così sferrò un altro potente colpo in faccia a Marco, il quale si arrestò per un attimo, tramortito…

Ci fu un attimo di silenzio, tutti col fiato sospeso a vedere come sarebbe andata a finire. Ma non finì affatto. Era appanea cominciata. Marco riprese a camminare verso il tizio coi baffi. Questi gli sferrò un altro dannato colpo alla mandibola, che gli fece saltare alcuni denti. Marco iniziava ad essere in difficoltà, quel colpo l’aveva decisamente sentito, il sangue gli sgorgava dalla sua bocca mescolandosi alla saliva schiumosa, mentre gli occhi a palla bianchi e senza pupille insistevano a fissare la sua preda. Il tizio coi baffi, stavolta gli sferrò il cric di punta, dritto sul mento, che schioccò brutalmente in dentro fino a staccarsi dal cranio, facendo fuoriuscire un fiotto di sangue nero, che si schiantò a terra come una secchiata di petrolio. Marco restava fermo, in piedi, con la mascella penzoloni inondata di liquame nero, e quegli occhi bianchi a palla e senza pupille puntati verso il tizio coi baffi, il quale, quasi quasi, cominciava a prenderci un certo gusto. Così, ecco che gli sferrò un ulteriore colpo alla base dell’orecchio. Colpì con talmente tanta violenza che il cric si conficcò nella carne, sfondando il cranio e spingendone alcuni frammenti nel cervelletto. Marco cadde a terra. Morto.



2


Fernando Marmiroli, detto il Marmi, era uscito dal carcere due giorni fa. C’era finito per aggressione a pubblico ufficiale, in seguito a una partita di calcio in cui la sua squadra del cuore aveva perso clamorosamente. Stava per essere colpito da un celerino, ma riuscì ad afferrargli al volo lo sfollagente, a trascinarlo verso di sé e a gonfiarlo come una cornamusa. Non era la prima volta che finiva dentro, anzi, la sua vita era tutta un via vai, e ormai ci si era pure abituato, anche se stare fuori gli piaceva di più, si capisce. Quel sabato pomeriggio doveva raggiungere i suoi amici al Bar Stadio, perché, com’era consuetudine ogni volta che usciva di galera, gli avevano preparato una festa di bentornato. Non vedeva l’ora di rivederli, quei figli di troia, e di sbronzarsi con loro fino a non ricordarsi più come si chiamava. Ci avrebbero pensato il Lucio e il Nando a riportarlo a casa. Oppure sarebbe rimasto direttamente a dormire sul divanetto del bar, tanto la domenica mattina era chiuso. Anzi, meglio se rimaneva nel bar, così ci avrebbe provato con la Flora…

Ma ora Fernando aveva un altro problema. Aveva appena sfasciato la faccia a un tale che a quanto pare aveva appena ammazzato uno. Sarebbe tornato dentro, porca di quella troia, lui e la sua mania di non farsi mai gli affari suoi! Comunque, la gente sembrava contenta che l’avesse steso, anche se qualcun altro stava vomitando l’anima. Ma fino a quel punto, tutti lo incitavano avanti, ammazza quel bastardo!, e lui l’aveva ammazzato quel bastardo! Era per legittima difesa. Eppure quel tizio non aveva armi in mano. Però aveva quegli occhi bianchi e a palla e senza pupille. Era senza dubbio un drogato, un drogato assassino! Forse l’avrebbe scampata, e magari gli avrebbero pure dato una medaglia. Fatto sta che, quando gli sbirri piombarono a sirene spiantate, Fernando era ancora lì, in piedi, immobile, col cric in mano che grondava sangue, il sangue di Marco, quello a terra con la faccia sfondata.

— BUTTA A TERRA QUELL’ARMA! — gli intimarono i carabinieri a pistole spianate.

— No, fermi, non è stato lui! — gridava qualcuno dalla folla.

— Si è difeso! — gridava qualcun altro…

Ma figuriamoci se i carabinieri li stavano a sentire! Il maresciallo Corso, appena scese dalla volante, riconobbe immediatamente il tizio coi baffi:

— Ma quello è il Marmiroli! — esclamò, — Che cazzo ha combinato adesso?

Un agente di polizia chiese al maresciallo se conoscesse quel tizio, e lui rispose che l’aveva arrestato l’anno scorso perché aveva picchiato selvaggiamente un collega. Dopo questo dettaglio, tutti i poliziotti e i carabinieri alzarono subito il livello di guardia, tenendosi a debita distanza e puntando le pistole sul sospetto. Un uomo che aggredisce uno sbirro non si può mai sapere di cosa sia capace…

— MARMIROLI! — gridò il maresciallo Corso da una certa distanza, — Marmiroli, lasci cadere a terra quell’arnese, vogliamo solo farle qualche domanda.

Ma il Marmi sembrava avere la testa assente, gli occhi fissi sull’asfalto, lo sguardo perso nel vuoto. Ora si stava rattrappendo, il cric gli tremava nella mano. Una forte emicrania gli stava spaccando la testa a metà. Di lì a poco sarebbe esplosa, ne era certo. Si portò una mano alla fronte, schiacciandosi gli occhi, perché il dolore partiva da lì, dagli occhi, maledetti occhi…

— Marmiroli, si sente bene? — riprese il maresciallo, avvicinandosi, — Avanti, lasci andare quell’arma, la porteremo da un dottore…

Ma ora il maresciallo gli fu troppo vicino. Fernando caricò il braccio e i una frazione di secondo scagliò brutalmente il cric sulla testa del carabiniere, sfondandogli il cranio a tal punto che il berretto da carabiniere si impastò col suo cervello. Nessuno se l’ aspettava! Era accaduto tutto così in fretta…

Carabinieri e i poliziotti iniziarono a gridargli contro di gettare l’arma, che era ancora incastrata nel cranio fracassato del maresciallo, la testa completamente ricoperta di sangue e di cervella, un occhio penzoloni, ma ancora in piedi, come se non si fosse ancora reso conto di essere morto…

Fernando staccò di netto il cric dalla testa del carabiniere, che si accasciò a terra imbrattando l’asfalto e rivelando il nuovo volto di Fernando. Ora era lui ad avere quegli occhi a palla, completamente bianchi e senza pupille, contornati di un nero vivido che si increspava sulla fronte. E soffiava, Fernando, soffiava a denti stretti, soffiava e schiumava, come un cane rabbioso, ma peggio. Molto peggio. A quel punto, gli agenti aprirono il fuoco, ma il Marmi si scagliò furioso contro il primo agente che gli veniva sottomano. Caricò un colpo di cric che avrebbe frantumato il cranio di un altro carabiniere, se l’agente Sigismondi della squadra mobile di Verona non fosse intervenuto rapidamente, sparando quattro colpi che si schiantarono dritti dritti nella testa del Marmiroli il quale cadde a terra, morto.



4


Quattro morti ammazzati nel giro di un quarto d’ora. Tutto era accaduto così in fretta che la gente non aveva nemmeno avuto il tempo di scappare. Quattro morti ammazzati nel giro di un quarto d’ora. Perché? Per niente. O almeno così sembrava…

— Dio***! — bestemmiò l’appuntato che si era appena visto la morte in faccia, — Grazie, fratello, ti devo la vita! — disse al collega poliziotto che gli aveva appena salvato la pelle, battendogli una pacca sulle spalle.

Ma all’improvviso, l’agente Sigismondi venne colto da una specie di attacco epilettico. Iniziò a tremare lì su due piedi, ma i tremori peggiorarono ben presto in vere e proprie convulsioni, iniziò a sbavare e gli occhi gli si ribaltarono indietro… Puntò la Beretta di ordinanza contro il collega a cui aveva appena salvato la vita e gli esplose due colpi in testa. Il carabiniere cadde a terra all’istante. I colleghi non credevano ai loro occhi. Cosa stava succedendo. La gente stava entrando nel panico. L’agente Sigismondi aveva quello sguardo, lo stesso di Marco e del Marmiroli, gli occhi a palla, bianchi, senza pupille e pieni di odio…

Pe persone si mettevano al riparo dietro alle volanti, nascosti dietro i cassonetti, dietro agli alberi, nei negozi e così via. Il panico aumentava di secondo in secondo. L’agente Sigismondi iniziò a sparare a chiunque avesse sotto tiro. Freddò il suo partner con tre colpi in piena faccia, spargendo le sue cervella sul parabrezza di una pattuglia. Poi puntò l’arma contro un carabiniere inebetito, al quale gli tremavano troppo le gambe per muoversi, e se ne stava lì, in piedi a piagnucolare, sperando che fosse solo un incubo e di svegliarsi il prima possibile. Sigismondi lo seccò con due colpi al collo, si sveglierà altrove. Circumnavigò la gazzella in cerca del prossimo e trovò un altro appuntato, che con fare tremolante stava cercando di raccogliere da terra la sua pistola, probabilmente scivolatagli dalle mani in mezzo a tutto quel caos. Il Sigismondi gli puntò l’arma, il carabiniere strizzò gli occhi. Ma una raffica di colpi crivellò il torace dell’agente Sigismondi, abbattendolo.



7


Ora i morti erano sette, ma c’erano un sacco di feriti per strada. La gente e la sua morbosa mania di guardare! Ma ora il problema stava iniziando a farsi ancora più serio. I poliziotti e i carabinieri che avevano abbattuto il Sigismondi, non tutti, ma quelli che gli avevano sparato, o meglio quelli che gli avevano inferto i colpi decisivi, erano tre: il brigadiere Andolfi, quarantotto anni, l’appuntato Scarlini, trentatré, e l’agente di polizia Bergamaschi, trentanove. Ora erano tutti e tre in preda agli stessi spasimi che avevano investito prima Marco, poi il Marmiroli e poi il Sigismondi. Gli stessi spasmi che pi li avevano poi trasformati in brutali assassini. Anche loro adesso si stringevano le mani alla testa perché la sentivano pulsare, sentivano che sarebbe esplosa da un momento all’altro. Ma la tarantella durò poco, molto meno di quanto durò per i loro predecessori. Il processo di trasformazione sembrava farsi sempre più veloce di volta in volta…

Fu allora che mi resi veramente conto di cosa c’era sotto! Come avevo potuto non pensarci prima? Gli occhi bianchi a palla, il sangue nero, tutto quell’odio… Dovevo trovare quel pezzo di merda prima che la cosa degenerasse ulteriormente. Ma era più facile a dirsi che a farsi…

I tre agenti, con quegli inconfondibili occhi a palla, bianchi, senza le pupille, vuoti, iniziarono a sparare ad unisono, cercando di colpire quante più persone possibile. Il brigadiere Andolfi stringeva un fucile d’assalto Beretta AR 70/90, solo lui ne stese nove in un colpo, fra cui sette suoi colleghi, un poliziotto e una mamma che correva disperata col figlioletto di dieci mesi in braccio. I loro colleghi cercavano di nascondersi nelle loro pattuglie. I più temerari rispondevano al fuoco, ma non era affatto semplice, non si dovevano colpire civili. Ed era pieno di civili! La folla che si era radunata dietro i cordoni della polizia, scappava ora in maniera disordinata, qualcuno cadeva a terra sotto il fuoco, colpito da proiettili vaganti. Quella che si consumò in quegli attimi fu una vera e propria carneficina. E il peggio doveva ancora arrivare! È in casi come questi che odio il mio lavoro. E i casi come questi sono più frequenti di quanto si immagini, seppur senza il dettaglio degli occhi a palla…

Un carabiniere ferito si trascinò alla radio per chiamare rinforzi, ma non sapeva cosa dire, era tutto così assurdo, troppo assurdo, e accadeva tutto così in fretta, troppo in fretta. Una raffica lo trapassò da parte a parte, la radio ancora in mano. Le imposte dei palazzi si chiudevano, lo spettacolo si era fatto troppo pericoloso per assistervi. Nel giro di pochi minuti giunsero sul posto altri poliziotti in tenuta antisommossa. E arrivarono anche alcune pattuglie dell’esercito. Circondarono l’intero isolato sotto i colpi tonanti dei tre agenti impazziti. L’agente Bergamaschi venne colpito al petto, ma non sembrava importargliene granché, come se il dolore non gli appartenesse più. Perseverava nell’ammazzare quanta più gente poteva, per soddisfare una sorta di inconcepibile brama di morte. Tutti e tre sparavano per uccidere, sparavano e sparavano, e quando finivano i colpi, raccoglievano un’altra arma da terra, tanto ai loro colleghi morti non servivano più. L’isolato venne assediato da due squadre d’assalto pronte a intervenire con armi pesanti. I tre agenti impazziti, a quel punto, avevano ucciso quasi tutti quelli che si trovavano nei pressi, in pochi riuscirono a mettersi in salvo. Ma avrebbero trovato altre vittime sacrificali al di là degli agenti antisommossa, dai quali una voce autoritaria che proveniva da un megafono ordinò:

— Gettate le armi a terra! O apriremo il fuoco!

Già sentita! Quegli zombie avanzavano con passo spedito come dei terminator del cazzo! Tranne l’agente Bergamaschi, che zoppicava con la casacca azzurra imbrattata di sangue nero. Ma tutti continuavano comunque ad avanzare e a sparare.

— Aprite il fuoco! — ordinò La voce autoritaria dal megafono-

I poliziotti e i militari spararono tutto il piombo che avevano a disposizione sui tre agenti impazziti, i quali vennero letteralmente ridotti in brandelli. Le loro frattaglie volavano sugli altri cadaveri. Dovevo trovare quel bastardo, non mi è mai piaciuto lavorare in questo modo!



88


Ora, gran parte di quelli che avevano sparato ai tre agenti impazziti, impazzirono a loro volta, ed aprirono il fuoco sui loro colleghi non impazziti. Era un processo degenerativo, incontrollabile. Le strade si colorarono di rosso, si ricoprirono di cadaveri, arti amputati, frattaglie e organi sfracellati. Così, intervenneo altri agenti, altri militari, ma ogni volta che qualcuno abbatteva uno di quei posseduti, ecco che egli veniva posseduto a sua volta, uccidendo chi posseduto non era. Era una forza inarrestabile! Le persone si trasformavano in spietati assassini che massacravano chiunque, senza distinzioni, agenti, civili, anziani, donne, bambini, tutti.



237


— Tg5. Edizione straordinaria! Verona sotto assedio! Oltre duecento civili brutalmente assassinati da agenti di polizia e da carabinieri impazziti. Le autorità, per motivi ignoti, forse in preda a raptus omicida, hanno aperto il fuoco sulla folla, massacrando centinaia di civili, fra cui donne, bambini e altrettanti agenti di polizia e militari. Ma sentiamo il corrispondente Toni Capuozzo, inviato sul posto. Toni, mi senti? Cosa puoi dirci di preciso? Cosa succede a Verona?

— Ciao Cristina, uh, scusate l’affanno, uh, ti sento Fzz anche se le linee sono un po’ disturbate. Qui è una vera e propria zona di guerra, uh-uh, come sentite alle mie spalle, tutti questi spari… Alcuni colleghi sono morti sotto le raffiche di mitra dei carab Fzz-Fzz… Le ambulanze non riescono ad avvicinarsi ai ferit — Fzz-Fzz… così. Ho il fiatone, uh, perché abbiamo corso come matti, uh, per raggiungere la macchina, oh-ah, al sicuro, perché laggiù è un vero inferno, Cristina, un ver FzzFzz Oh merda , no no nooo TaTaTaTaTaTaTaTa Aaargh…

— Toni? Toni! Toni…

— Tg1. Abbiamo in linea un’eccellenza in merito, il criminologo Massimo Picozzi. Dottor Picozzi, mi riceve?

— Certo. Buonasera.

— Ecco, che cosa può dirci in merito a quanto sta accadendo a Verona? Suppongo abbia visto anche lei le immagini shoccanti che abbiamo trasmesso. Ecco, la gente si chiede cosa possa essere accaduto a quei poliziotti, ecco, perché stanno massacrando tutti questi civili, così, dal nulla?

— Ebbene sì, purtroppo ho visto quelle immagini, e concordo con lei che sono a dir poco shoccanti… Mmmh, vede, in realtà qui siamo di fronte a un fenomeno del comportamento criminale del tutto anomalo, perché non si tratta del classico mass-murderer, ma di qualcosa di più complesso…

— Ecco, Dottore, mi scusi se la interrompo, ma la gente a casa si chiederà, ecco, che cos’è un mass-mardener?

— Mass-murderer! In italiano si traduce con assassino di massa. Noi in Italia non abbiamo mai avuto casi eclatanti di questo genere di assassini, semmai, da noi sono più frequenti quei casi di cosiddetti mass-family-murderer, ovvero assassini di massa sì, ma delle proprie famiglie. Basti pensare a Pietro Maso, a Erica e Omar, e a tutti in quei casi in cui l’individuo, psicologicamente instabile, emotivamente depresso e deluso dalla vita, decide dal detto al fatto di sopprimere la propria famiglia, per poi puntare l’arma contro se stessi. I mass-murderer, o assassini di massa, sono tuttavia frequenti negli Stati Uniti. Si tratta di persone disturbate, che danno inizio ad una vera e propria strage. Solitamente, i mass murderer, prima di essere soppressi dalle autorità, cercano di portare con sé quanti più innocenti possibile. A volte agiscono singolarmente, altre volte in coppia, e talvolta anche in branchi. Ma non vi sono precedenti di casi simili a quello che sta accadendo a Verona, perlomeno per quanto io sappia.

— Ecco Dottore, ma a questo punto le chiedo, cosa può aver spinto dei funzionari della legge, come quei poliziotti e quei carabinieri appunto, a commettere gesta così feroci, a trasformarsi in quei mass-mardener, ecco?

— Mmmh. Non lo so. Io, non saprei rispondere a questa domanda.



666


Lo Stato Maggiore venne convocato con massima urgenza. Si discusse dell’infezione che rendeva persone apparentemente normali degli assassini senza scrupoli. Si parlò quindi di attentato terroristico, con armi batteriologiche sconosciute. Idioti! Si consultò Washington per chiedere se qualcuno fosse al corrente di casi simili. Ovviamente, nessuno aveva mai sentito parlare di cose del genere. Il Presidente degli Stati Uniti sbiancò al solo pensiero che potesse accadere anche su suolo americano. Cosa che avrebbe innescato la fine del mondo…

Il Generale Ugolini insisteva per un «protocollo di contenimento», che in parole povere voleva dire radere al suolo la zona infetta della città di Verona. Nessuno obiettò, perché in quel momento la sua sembrava essere l’unica soluzione possibile. Io qualche dubbio ce l’avevo, ma non mi è mai stato concesso di interferire. Così, il Ministro degli Interni e il Presidente del Consiglio, vessati dall’aria autoritaria dei generali, concessero loro l’esecuzione del protocollo.

Alle 19:55, pressappoco quattro ore e mezza dall’inizio dei disordini, cinque Tornado decollarono dall’aeroporto militare di Villafranca. Raggiunta la zona contaminata, che dal centro storico si era ora espansa sino alla periferia sud della città, dove gli omicidi di massa perseveravano fra raffiche di mitra, automobili in fiamme, accoltellamenti e barbarie d’ogni tipo, i caccia bombardieri sganciarono le bombe. Ogni bomba polverizzava tutto nel raggio di centinaia di metri. Mezza città fu devastata in meno di sette minuti, alla faccia dell’UNESCO!

Eppure, c’era un dettaglio che l’esercito non aveva preso in considerazione: la modalità di contagio. Come si trasmetteva quell’infezione? Com’era stato ripetutamente dimostrato dai fatti, veniva infettato solo chi sopprimeva, in un modo o nell’altro, uno già infetto. Ora, quei cinque piloti di caccia Panavia Tornado erano infetti. In parole povere, erano cazzi amari…



444.815


— Ti sei divertito? — gli chiesi con una certa retorica.

Non ne potevo più di assecondare i suoi capricci. Come non avessi già abbastanza lavoro da sbrigare. L’avevo scovato lassù, sul tetto di un palazzo di Milano, quello che gli uomini chiamano Pirellone. Che nome buffo, pensai, Pirellone… Buffo quanto lui, l’impermeabile scuro che gli svolazzava come un mantello, i capelli unti che gli sbattevano sul volto. Non si degnò nemmeno di rispondermi. Sapeva che ora doveva tornare di per dov’era venuto e la cosa non gli piaceva affatto.

Si voltò verso di me, a guardarmi. Perlomeno così credo, ma era difficile a dirsi, non si poteva mai capire dove guardasse di preciso quel cafone, con quegli occhi a palla, bianchi e senza pupille, che non avrebbero tradito alcuna espressione se non fosse per quel ghigno sottile, derisorio, demoniaco, tipico di chi viene da quelle parti… Comunque, mi guardò per un istante, poi tornò a fissare giù di sotto, assaporando gli ultimi istanti della sua folle opera, ad ascoltare le ultime grida disperate della folla, ad osservare il continuo andirivieni di ambulanze, di lampeggianti della polizia, di pompieri che abbattevano porte, che spegnevano gli incendi… Gli sarebbe mancato tutto ciò. Ed era per causa mia che gli toccava lasciarlo. Mi odiava per questo. Non sapeva fare altro che odiare, lui, odiare odiare odiare e far odiare gli altri. Tranne me, ovviamente, io non odio nessuno. Sono imparziale, io. Ma i suoi trucchetti hanno mandato in tilt questa nazione per quasi tre giorni. Quasi mezzo milione di anime mi è toccato raccattare per le sue bravate da ragazzino viziato! Lui, mister guarda-che-bravo-che-sono, “il demone dell’odio”, oddio che paura, mi si gela l’osso sacro! Mavaffanculo, va! Vedrai come ti farà passare la voglia di stronzeggiare il tuo papi! Avrei voluto essere presente quando gli avrebbe fatto la ramanzina, per poi castigarlo come si meritava. Cristo Santo, avrei dato una tibia per godermi quello spettacolo. Ma, ahimè, non ho mai il tempo di fare un cazzo! Mi ero concessa quei pochi istanti solo per andarlo a salutare, per dirgli che non doveva più tornare da queste parti. Per ricordargli che di odio gli umani ne provano già fin troppo, mica serve un demone dimenticato da secoli. Che poi, chi diavolo se l’era mai inventato questo Misos? Il nome era sicuramente di origine greca, eppure non mi sapeva da greco, mi sapeva più da sumero, fenicio, robaccia così. Non che me ne importasse granché! Quello che mi interessava, era che se ne andasse fuori dai coglioni una volta per tutte e il più in fretta possibile, lui e quei suoi dannati occhi a palla del cazzo!

 –  Tornerò! – minacciò con voce ruvida, piena di rancore, senza distogliere lo sguardo da laggiù, poi si voltò di nuovo verso di me e proseguì –  E la prossima volta ti farò lavorare dieci volte tanto, puttana!

 – Ah davvero?  –  replicai col sarcasmo che da sempre mi contraddistingue  –  Tu torna, e io mi metto in sciopero!

Il suo ghigno si spense. Si chiedeva se potessi veramente farlo. Naturalmente non potrei mai, senza di me la baracca non andrebbe avanti. Ma il solo fatto di avergli messo questo dubbio, mi divertì. Dopodiché, evaporò, tornandosene all'inferno da cui era venuto, dove lo attendevano paparino e fratellini. Io sospirai, anche se non so come si fa. Mi avvicinai al parapetto, nel punto in cui Misos scomparve nell’Aldilà. Osservai la situazione, quel caos. Mi piacciono gli umani quando si danno da fare per salvare i loro simili. Ce la mettono tutta. Ma in quell'istante, il mio telespirito vibrò, era una chiamata di lavoro. In pratica, un tremendo terremoto si sarebbe abbattuto su Haiti quella stessa notte, e sulla lista c'erano 3.633 anime. Era tardi, dovevo darmi una mossa, o molti sarebbero sopravvissuti...



FINE



© Elia Cristofoli (racconto depositato)

87 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Buon Anno!

bottom of page