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18/A

Aggiornamento: 11 dic 2020

18/A, un racconto di Elia Cristofoli

Introduzione. Il racconto che segue è un virtuosismo di intrecci in una fabula a prolessi, una sorta di bestemmia per qualunque accademico 🤣. La fabula rappresenta la narrazione lineare e cronologica dei fatti, mentre la prolessi è uno stile di narrazione dove l'autore, cioè me, anticipa i fatti che si susseguiranno lungo la linea temporale. Ho provato a fare un mix, ma in realtà non l'ho fatto apposta, è successo e basta e chissenefrega.

Avvertenze. Questo racconto contiene un linguaggio scurrile, scene sporche e brutali. Non so se questo lo renda "vietato ai quattordici anni", come nei film, ma dato i tempi che corrono, nonostante siate sul mio blog personale, e in quanto tale io possa scriverci quello che mi pare e piace, metto comunque le mani avanti, e vi avviso sui contenuti espliciti. Che poi non vengano fuori storie 😑.

PS. Se qualche mio collega regista desiderasse farne un cortometraggio, o un film, sappia che la versione sceneggiata è già bella che pronta 😉.

Buona lettura.




18/A

circostanze e coincidenze



Set


Era tardo pomeriggio, l’ora di punta nella quale la gente cessa di lavorare per tornarsene a casa. O meglio, quella che da queste parti viene definita l'ora dell’aperitivo.

Anche Set se ne stava andando a casa, ma a contrario dei molti, non tornava dal lavoro, ma da un quasi lavoro, altrimenti detto colloquio. Gli era sembrato fosse andato bene, perlomeno fino al momento in cui il responsabile del personale lo congedò col consueto le faremo sapere. Set odiava il consueto le faremo sapere, se l’era sentito dire troppe volte, ed ogni volta nessuno gli aveva mai fatto sapere un cazzo! Tuttavia, confidava fra sé che non sarebbe stata questa gran perdita, il lavoro era una palla e la paga era una merda.

In quel momento era seduto nella sua Golf grigia tipo vecchio a fissare la gente. Il semaforo rosso lo aveva immerso in pensieri neri come il petrolio e pieno di sensazioni precarie come la Torre Eiffel capovolta e appoggiata con la punta su una palla da rugby. Tamburellava le dita sul volante a ritmo di una musica martellante e sincopata, metal o giù di lì. Nel frattempo, la mano sinistra veniva scrupolosamente sottoposta a un accurato intervento di onicofagia. Le unghie venivano rosicchiate una ad una, dito per dito, dopodiché venivano letteralmente sminuzzate in microscopiche schegge dai denti che si muovevano come presse meccaniche. Questo per dire che Set era piuttosto agitato. Man mano che proseguiva col suo nevrotico mangiucchio, le feroci sentenze sotto forma di musica che le povere casse del suo stereo malandato sputavano senza ritegno, andavano mescolandosi con i clacson delle macchine dietro di lui, che strombazzavano violentemente in modo che Set si togliesse dai piedi. Era scattato il verde. In realtà, non doveva essere scattato da troppo tempo, ma in quella maledetta città, uno doveva schizzare via come un fulmine appena il cerchio di sotto si illuminava di verde. Bastava ritardare anche di un solo secondo per attirarsi l’odio degli altri automobilisti. Era sempre così, una città di clacson e di rompicoglioni. Una volta sceso da Marte, nonostante i clacson a lui dedicati, Set decise di non partire. Pensò bene di guardare dal retrovisore chi fosse l’imbecille di turno che osava distrarlo dalla sua personale terapia antistress, e di fargliela pagare come solo uno stronzo farebbe. Set non era nuovo in questo genere di cose, era sempre stato un bastardo, astioso fino al midollo. Dallo specchietto vedeva un cazzone in giacca e cravatta con la faccia da coglione. Lo osservava mentre sbraitava al di là del parabrezza di un SUV blu elettrico. Fondamentalmente, non era l'unico a strombazzare, ma Set non vedeva che lui, pertanto a lui rivolse la sua intera seccatura, esitando ulteriormente e rimanendo immobile a fissarlo, mentre le altre macchine già iniziavano a scansarlo, sorpassandolo sull’altra corsia. Ma il tizio nel SUV non poteva farlo, il muso del suo carro armato era troppo vicino al culo dell’auto di Set, perciò non aveva abbastanza spazio per la manovra. Set insisteva a ridersela, finché il tizio non perse del tutto la pazienza e decise di scendere dalla macchina per andare a dirgliene quattro. In quel momento scattò il rosso e Set sgommò a paletta, lasciando il tizio del SUV in mezzo alla strada a imprecare da solo come un babbeo. Dal retrovisore, Set poteva godersi lo spettacolo del tizio che sbraitava ai quattro venti furioso di rabbia. Ma non contento di averlo già umiliato in quel modo, Set decise di abbassare il finestrino e di mostrargli, con tutto il dovuto rispetto, il suo bel dito medio.



Marco


Marco si trovava nel suo ufficio a sbrigare una complicata faccenda con un cliente, il quale era convinto di essere stato truffato, quand’ecco che, a salvarlo dalla tensione che si era venuta a creare, squillò la sigla dei Simpson. Il nome che comparì sul display del cellulare era quello di Giulia, sua moglie, che nonostante le avesse detto un milione di volte di non chiamarlo mentre era al lavoro, quella volta l’avrebbe perdonata eccome. Ma quando rispose, non trovò Giulia dall’altra parte, bensì quella rompipalle della sua amica Tatiana, il cui solo il nome è tutto un dire, che balbettando come una cretina lo avvisava che a Giulia le si erano appena rotte le acque. Marco scattò come un fulmine dalla poltrona senza nemmeno spegnere il pc, si scusò in fretta e furia col cliente, rassicurandolo che un suo collega avrebbe provveduto a continuare al posto suo, e che lui doveva correre da sua moglie perché stava partorendo suo figlio. Mentre si infilò la giacca, ancora preso dal panico, cercò di spiegare a Cosimo, a grandi linee, come procedere col signore nel suo ufficio, e di riferire al capo, quando sarebbe rientrato, che lui doveva correre all’ospedale perché stava per diventare papà.

— Nessun problema! — rispose Cosimo.

La sua auto era parcheggiata dall’altra parte della strada. Entrò di tutta fretta, col cervello che gli pulsava. Stava succedendo davvero! Ancora non ci credeva. Era da oltre un mese che si preparava a questo giorno, sapeva che poteva accadere da un momento all’altro, così, dal nulla, come un fulmine a ciel sereno. E difatti così fu! Fra l’altro, mentre accese la macchina per insinuarsi nel traffico cittadino, pensò che non poteva accadere in un momento migliore, proprio mentre quel bastardo del Signor Cantieri aveva scoperto che la casa che gli aveva venduto era una topaia. Tuttavia, pensò, ci avrebbe pensato Cosimo, nessuno era più bravo di lui nell’improvvisare fesserie su due piedi. Ma ora, Marco aveva ben altro per la testa. Suo figlio, dopo nove mesi, stava finalmente venendo al mondo.

Marco sfrecciava tra una viuzza e l’altra, cercando di evitare le arterie principali, piene di semafori. Ma ovviamente, prima o poi, uno o l’altro gli sarebbe toccato. Era ancora indeciso se chiamarlo Alessio o Francesco. Nonostante si fosse sforzato di brutto, in nove mesi non era riuscito a trovare nomi più banali di questi. Ma in fin dei conti anche il suo nome, Marco, non è che brillasse di originalità, pertanto nemmeno suo figlio doveva avere questo gran nome; mica poteva chiamarlo Brad, o Clint! Un corriere espresso figlio di puttana gli tagliò la strada, e quasi non gli trapassava il furgone, ma per fortuna non accadde nulla e poté tornare ai suoi pensieri, ovvero a suo figlio e al nome da affibbiarli, anche perché non gli veniva in mente nient’altro a cui pensare. Voleva che fosse un nome normale, che gli permettesse di passare le elementari senza traumi, senza che i suoi compagni lo sfottessero troppo con le rime, come quel suo vecchio compagno delle medie, Elia, gliene dicevano di tutti i colori, Elia Golia, Elia va via, Elia la vacca di tua zia… Marco non voleva che suo figlio venisse preso in giro per il nome, Alessio e Francesco non offrivano, a suo dire, granché spunti in tal senso. Al massimo avrebbero potuto abbreviarli in Ale, o Fra, e la cosa gli stava pure bene, anzi, non vedeva l’ora di essere lui stesso ad abbreviare il nome di suo figlio. Già si immaginava Ale, vieni giù, dammi una mano a mettere a posto il garage!, oppure Fra, mangia tutto sennò la mamma si arrabbia!

Fermo a un semaforo, pensava che quei due nomi, Alessio e Francesco, gli piacevano proprio un sacco, ma era talmente indeciso tra i due che quasi quasi glieli avrebbe dati entrambi e chiuso il discorso. Il semaforo si era finalmente fatto verde, ma mentre le macchine nella corsia di fianco stavano partendo, quel cazzone nella Golf grigia davanti a lui rimaneva fermo immobile. Non si era ancora accorto del verde e Marco suonò il clacson:

— Dai! Dai! Levati dai piedi!

Suonò ancora, più insistente, ma quello non si muoveva, si era incantato di brutto…

— Allora! — imprecò Marco, — Avanti pezzo di merda, datti una mossa!

Ma quello non si smuoveva. Peggio! Adesso sembrava essersi svegliato fuori, ma non accennava il minimo spostamento, sembrava infastidito dallo strombazzare di Marco:

— Ma che palle! Proprio adesso doveva capitare!

Normalmente, in una situazione simile, Marco sarebbe sceso a spaccargli la faccia. Ma non quel giorno, suo figlio stava nascendo, doveva correre da sua moglie! Si guardò indietro per fare retro, ma c’era la colonna e non si poteva muovere. Intanto il semaforo divenne arancione e Marco continuava a strombazzare come un dannato. Ma quello stronzo non accennava a muoversi, sembrava ridersela di gusto. Adesso Marco ne aveva abbastanza e decise di andargliene a dire quattro. Sganciò la cintura, aprì la portiera e scese dal SUV. Ma prima di potersi avvicinare alla Golf, il rosso scattò, e con esso anche la Golf, che sgommò via lasciando Marco in mezzo alla strada come uno sfigato:

— Ma vaffanculo! — sbottò Marco.

E come se non bastasse, quello stronzo sfoggiò dal finestrino il suo stramaledetto dito medio. Ma possibile, pensò Marco, che ci sia certa gente in giro? Rientrò indispettito nel suo SUV blu elettrico ad aspettare il prossimo verde. Ora non pensava più ad Alessio o a Francesco, pensava a quel pezzo di merda che gli aveva appena tirato quel gancio. Pensava che avrebbe voluto averlo fra le mani e sfasciargli la bocca, mentre gli avrebbe spiegato che certe cose non si fanno, perché non si sa mai con chi si ha a che fare, ma soprattutto, che non ci si deve infastidire solo perché qualcuno ti suona il clacson, perché magari quel qualcuno ha una fretta fottuta, perché magari deve correre da sua moglie che sta per partorire, cazzo!

Scattò il verde. Via ancora a tutta velocità. Correva Marco, correva con quel SUV blu elettrico, grosso, cattivo, pesante, arrogante, un vero autoblindo da guerra. Eppure lo guidava nella sua città di mentecatti, che a suo modo, era pure quella una guerra.

In via Gioacchino Rossini, giusto a qualche chilometro dall’ospedale di Borgo Roma, come ogni volta che pioveva per qualche giorno di seguito, ai lati della strada si formava sempre una grande pozzanghera di acqua di fogna, che sarebbe sgorgata dai tombini fino a quando non avrebbero sistemato. Ovviamente, prima che fossero venuti a sistemare, avrebbe fatto in tempo a piovere di nuovo. Marco, di quella pozzanghera non se ne curò minimamente, come non si curò minimamente di quel pizza express che era appena sceso dal motorino con quattro pizze profumate e fumanti in mano, pronto a consegnarle al numero 18/A di via Gioacchino Rossini. Il SUV sfrecciò a tutta birra sollevando uno tsunami degno di Mosè, che inondò da cima a fondo quel povero cristo del pizza express, motorino e pizze incluse. Marco sbirciò dal retrovisore e vide quel poveraccio là dietro, fermo immobile, completamente fradicio di acqua di fogna, che lo fissava inerme, mentre le pizze gli scivolavano a terra. Ma non aveva tempo per impietosirsi, cazzi suoi pensava, in fin dei conti se l’era andata a cercare, guarda te dove cazzo andava a consegnare le pizze!



Gioele


Gioele era stanco morto. Quel giorno non ne aveva proprio voglia. Piuttosto di andare lavorare, avrebbe preferito farsi un clistere di acido muriatico. Sperava che un aereo si schiantasse su quel maledetto edificio. O che dei terroristi islamici entrassero a massacrare tutti, mentre lui era in giro a far consegne. O perlomeno, sperava in un cazzo di incendio, in una fuga di gas, qualcosa… Ma non accadde nulla di tutto questo e gli toccò andare a lavorare. Era tentato nel fare una telefonatina anonima alle autorità sanitarie. Se gli avesse raccontato di quella volta che lui e il Cisco trovarono merde di topo negli impasti, sarebbero piombate in un nanosecondo. Poi però, a mente lucida, pensò che sarebbe rimasto senza lavoro del tutto, mentre lui voleva starsene a casa solo oggi. In fin dei conti, per quanto lavorasse come un negro e fosse sottopagato come un profugo, quel lavoretto era pur sempre il suo unico mezzo di sostentamento, e cercarne un altro part-time sarebbe stata un’impresa epica. Doveva baciarsi i gomiti per quel lavoretto da schiappe, che gli permetteva di mantenersi quella sudicia stanza in quell’appartamento che condivideva con altri quattro stronzi come lui, e di proseguire con gli studi di economia e commercio. Niente telefonatina anonima, dunque. Ma porca puttana, quel giorno, piuttosto di andare a lavorare…

Ora si trovava dietro al bancone, vicino alla cassa. Aveva appena venduto tre fette di pizza al taglio a un marocchino senza denti, tant’è che si chiese come diavolo avrebbe fatto a mangiarla, vista la consistenza da copertone di quella pizza di merda. Sia ben chiaro, il Cisco era un bravo ragazzo, ma come pizzaiolo valeva meno di Stephen Hawking a un incontro di boxe clandestino. Era quello il motivo per il quale non c’era sto gran giro, le pizze facevano cagare. Ma meglio così, meno lavoro uguale a meno sbatti. Comunque sia, dopo che il marocchino uscì dalla pizzeria, una telefonata squillò al telefono del locale. Gioele lo fissò sorpreso, poi guardò il Cisco, che si sorprese a sua volta. Erano giorni che nessuno telefonava.

— Rispondi cazzo! — gridò il De Vecchi dall’ufficio di dietro, — Sempre che non ti dia troppo fastidio!

In effetti, un po’ di fastidio a Gioele glielo dava. Perché gli sarebbe toccato andare in giro per la città su quel motorino scassato e pericolante. E il telefono squillava…

— Allora! — sollecitò impaziente il De Vecchi.

— Speedy Pizza Express? — rispose Gioele.

— Cazzo, ce ne mettete a rispondere! — disse uno stronzo dall’altra parte della cornetta, — Ancora un po’ e mi passava la fame!

— Chiedo scusa, signore, è che siamo molto impegnati.

Gioele si grattò il naso e con la massima calma raccolse l’ordinazione. Quel tizio ordinò quattro pizze, una prosciutto e funghi, una salamino piccante, una quattro formaggi più salamino e una gorgonzola e noci. Doveva consegnarle in via Gioacchino Rossini 18/A, suonare il campanello con scritto Cri.

— D’accordo. — rispose Gioele, — Le pizze arriveranno in meno di mezz’ora, arrivederci.

Sbatté il telefono e sbuffò, passò la comanda al Cisco e andò a riferire dell’ordinazione al De Vecchi, il quale, come al solito, era seduto alla scrivania davanti al pc, a navigare siti di incontri online, dov'era sua abitudine sputtanare quel poco di guadagno che quella topaia gli fruttava. Ma Gioele sapeva molto di più. Una sera che il De Vecchi non c’era, lui e il Cisco si sfondarono di canne, dopodiché erano andati a sbirciare nel computer del loro capo e nella cronologia di Firefox scoprirono i suoi particolari gusti sessuali. Non contenti, erano andati a sbirciargli la posta elettronica, trovando mail su mail di trans su trans con i quali si dava appuntamenti su appuntamenti, brutto rotto in culo che non era altro! Se la risero come non ci fosse un domani, pensando che prima o poi, quelle informazioni gli sarebbero tornate utili.

Fra grattate di palle e starnuti, il Cisco preparò finalmente le quattro pizze, le ripose nei cartoni e Gioele, prima di chiudercele dentro, pensò bene, da bravo screanzato, di sputarci sopra. Ora però doveva andare fino in via Gioacchino Rossini, in zona ospedale. Normalmente, ci sarebbero voluti non più di cinque minuti, ma con quella trappola a due ruote ce ne sarebbero voluti almeno quindici. Infilò le pizze nel bauletto termico, per così dire, indossò il casco e si imbarcò nell’avventura della consegna. Eh sì, perché consegnare le pizze, con quel motorino sgangherato, in quella città incivile, era davvero un’avventura! Doveva scampare al suicidio ad ogni angolo di strada. Era come correre in un campo minato e sperare di farla franca. Finora gli era sempre andata bene. Per fortuna, pensò, che almeno non pioveva…

Dopo quindici minuti era in via Gioacchino Rossini. Il numero 18/A era proprio vicino all’enorme pozzanghera di fogna che sgorgava dai tombini ogni volta che pioveva per qualche giorno. Salì sul marciapiede con il motorino, onde evitare quella melma, che fra l’altro emanava un disgustoso lezzo da latrina, e lo parcheggiò proprio sotto la porta del 18/A. Si avvicinò per suonare il campanello con scritto Cri, ma proprio in quell’istante, i suoi sensi lo avvertirono di un pericolo imminente: il motore di un SUV che correva a tutta birra. Già si vedeva inondato di acqua di fogna. Ma prima ancora di rendersene conto, il SUV blu elettrico era già lì, che sfrecciava al suo fianco, sollevando da terra un’onda anomala di piscio e merda, che piombò addosso a Gioele inondandolo da capo a piedi.

Merda, pensò Gioele, merda merda merda merda e ancora merda, cazzo! Immobile sul marciapiede, inzuppato da disgustosi liquami, Gioele fissava il SUV mentre si allontanava, lasciò cadere le pizze a terra, oramai impregnate di fogna. Rabbrividì e un conato di vomito gli permise di sbuffare il liquame in eccesso che gli si era accumulato in bocca. Una scena di miseria assoluta.

— Oh, fattorino! — disse una voce sopra la sua testa, — Non saranno mica le mie pizze quelle!

Gioele non lo degnò neppure di uno sguardo. Non voleva sapere che faccia avesse quel Cri, tantomeno voleva che quel quel Cri vedesse la sua. La sua autostima era finita a terra con le pizze. Ma alla finestra adesso accorrevano anche gli amici...

— Venite a vedere il tizio delle pizze!

E tutti accorsero a vedere il tizio delle pizze, a ridere a crepapelle, a sfotterlo, coglione, sfigato, gli dicevano, e adesso come la mettiamo con le nostre pizze?

Gioele si irrigidì, deglutì saliva e piscio, accese a fatica il motorino, dalla cui marmitta sbuffò lo stesso liquame che aveva sbuffato lui. Dopodiché, si allontanò lentamente dal 18/A di via Gioacchino Rossini, mentre il Cri e i suoi amici lo schernivano come si fa con un fenomeno da baraccone.

Gioele aveva freddo, gli veniva da vomitare, chissà quante malattie stava incubando! Stava giusto passando davanti all’ospedale di Borgo Roma, forse avrebbe dovuto fermarsi, farsi dare un’occhiata, farsi un’antitetanica, o farsi fare una ricetta per qualche pastiglia contro la salmonella, contro la peste bubbonica, qualcosa cazzo! Ma in quel momento, come d’incanto, gli si illuminarono gli occhi. Quel maledetto SUV blu elettrico era parcheggiato proprio lì, davanti ai suoi occhi, nella viuzza che correva fino all’entrata del pronto soccorso:

— Bene bene bene…



Camilla e Anna


Camilla uscì dall’ospedale intorno alle otto e mezza. Non ce la faceva più! Quella storia la stava portando all’esaurimento. Quella troia doveva capire una volta per tutte che Carlo adesso era il suo uomo, e di nessun’altra! E anche se una volta era appartenuto a lei, ora quella storia era acqua passata. Doveva smetterla di perseguitarlo, quella scrofa, o l’avrebbe denunciata ai carabinieri per stalking. E poi sarebbe andata a casa sua a trovarla, quella zoccola, e le avrebbe detto: senti Anna, non so cosa ti sei messa in testa, ma Carlo adesso è il mio uomo, e mio soltanto! Se ti azzardi un’altra volta a chiamarlo o mandargli anche solo un messaggino, io ti ammazzo brutta puttana!, così le avrebbe detto!

Carlo era il primario all’ospedale di Borgo Roma, un bell’uomo, anche se in là con gli anni. Quella sera aveva chiesto a Camilla di tornare a casa con la sua auto, per poi tornare a prenderlo non prima di domani mattina alle sei e mezza, perché aveva un’operazione molto complicata che sarebbe andata avanti tutta notte. Camilla obbedì come un cagnolino, ma una volta giunta alla macchina di Carlo, la donna fu presa da sgomento. Non credeva ai suoi occhi! Pensava che stavolta quella maledetta troia aveva superato ogni limite possibile e immaginabile! Il SUV blu elettrico di Carlo era totalmente rigato, il parabrezza era sfondato e le ruote erano a terra. Avvicinandosi di più all’auto, con le mani giunte sul viso e il cuore che accelerava sempre di più, Camilla si accorse che i graffi alla carrozzeria erano delle scritte, che dicevano: «pezzo di merda», «figlio di puttana», «muori», e poi l’ultima, la più raccapricciante, «ti venise un cancro!», scritto proprio così, con una esse sola, forse perché fatta in fretta e furia. Il parabrezza era sfondato completamente, microscopici pezzetti di vetro erano sparsi per tutto l’abitacolo, mentre sul sedile del passeggero c’era un sasso grosso quanto una montagna, un esplicito messaggio diretto a lei, Camilla, la nuova donna di Carlo, che ora sedeva al suo fianco sul suo SUV blu elettrico. La cosa certa era che era stata lei, Anna la puttana, Anna la merda umana, Anna la vacca, Anna la donna morta… Perché era proprio così che ora Camilla la voleva vedere, morta! Decise di non dire nulla a Carlo, almeno per il momento. Più che altro perché stava affrontando un’operazione a cuore aperto su un paziente che era stato colpito da un improvviso aneurisma aortico. L’operazione sarebbe durata parecchie ore, fino al mattino. Non era il caso di mettergli in testa brutti pensieri, la sua mente doveva rimanere lucida per operare bene. Meglio lasciarlo tranquillo, quindi. Glielo avrebbe detto l’indomani. E poi, questa ormai era diventata una faccenda fra lei e quella stronza puttana di Anna…

Dopo aver chiamato il carro attrezzi e aver fatto portar via il SUV devastato, e dopo aver chiamato un taxi ed essersi fatta accompagnare a casa, Camilla salì su la sua auto, una piccola BMW Roadster, e schizzò via verso la casa di quella stramaledetta scrofa di Anna. Sapeva dove abitava la stronza, perché una volta erano amiche. Appena giunta nella via nella quale abitava la vacca, Camilla cercò parcheggio, ma la strada era piena di macchine, sia da una parte che dall’altra, e non avendo nessuna voglia di farsi i chilometri a piedi, decise di lasciarla in seconda fila, proprio sotto la porta del condominio, a fianco di una Smart nera e bianca. Camilla scese e si attaccò al campanello senza staccare il dito per almeno dieci secondi. Quando mollò la presa, una voce femminile piuttosto seccata rispose:

— Ma chi cazzo è?

— Sono io, puttana! — rispose cortesemente Camilla, — Scendi subito che ti rompo il culo, troia!

Anna non se lo fece ripetere due volte, scese di corsa le scale, curiosa di stare a vedere che cazzo voleva quella puttanella da due soldi. Intanto, Camilla scalpitava dalla furia, chiudeva le mani a pugno e le riapriva, se le passava fra i capelli e si premeva sul cuore, che sembrava esploderle dentro il petto. Ma ecco Anna avvicinarsi attraverso la porta a vetri dell’ingresso del palazzo, con quella sua camminata da culona del cazzo. Quando la scrofa aprì la porta, Camilla iniziò ad urlarle addosso:

— Che cazzo hai fatto alla macchina del mio moroso, brutta stronza?!

Ma Anna non fece nemmeno in tempo a sorprendersi, che Camilla le si scagliò contro ad artigli spianati, graffiandola in faccia e urlando come un’indemoniata. Anna non se l’aspettava, ma fu pronta a reagire e la strattonò dai capelli. Iniziò così una specie di pestaggio, fatto di tiramenti di capelli, graffi, pugnetti, ma perlopiù erano urla isteriche e calunnie spropositate. Chiunque fosse passato da quelle parti in quel momento, si sarebbe goduto una rara scena di due cretine che si azzuffavano.

Ma gli unici spettatori furono quattro ragazzi del terzo piano, che per puro caso, in quel momento si trovavano sul balcone a farsi le canne. Dall’alto, i quattro ragazzi assistevano alla patetica scena che si consumava sotto i loro occhi, in strada, dove due donne si aggrappavano l’una ai capelli dell’altra. Ogni tanto si lasciavano per aggiustarsi le acconciature, come una specie di tic nervoso, ma poi ricominciavano. I ragazzi iniziavano a ridersela:

— È meglio della tele! — esclamò uno di loro.

La zuffa proseguì per un bel po’, fino a quando una delle due donne piazzò uno sgambetto all’avversaria, che precipitò a terra per poi ruzzolare in mezzo alla strada, al di là di una BMW parcheggiata in doppia fila. A quel punto, i ragazzi furono presi da sgomento. Un’auto arrivava a tutta velocità ed era chiaro che non avrebbe mai fatto in tempo a frenare. Gli pneumatici stridettero sull’asfalto, ma la velocità era troppo sostenuta e la brusca frenata non riuscì da evitare di passare con tutte e quattro le ruote sopra al corpo di Anna, che venne schiacciata contro l’asfalto e risputata da dietro in condizioni pessime. L'auto si fermò stridendo qualche metro più in là. L’altra ragazza rimase sul marciapiede immobile e interdetta. I ragazzi strafumati ora non ridevano più, uno di loro tossì il fumo che gli era andato di traverso. Sembrava che il tempo si fosse fermato, che tutto ora procedesse al rallentatore. Persino i rumori si erano spenti, la città non era mai stata tanto silenziosa. Il fumo denso provocato dall’attrito della gomma sull’asfalto si dipanò e sulla strada iniziava ad intravedersi il sangue nero e il corpo della ragazza divelto, imbrattato di rosso, con le braccia all’indietro e una gamba rovesciata in avanti, una mano che pulsava, la bocca che sputava sangue, un occhio fuori dall’orbita. Era ancora viva e cercava di dire qualcosa…

— C… — biascicava Anna, senza che nessuno corresse in suo aiuto, — Ca… Car… Carl.. o…

L’agonia non durò che pochi istanti, ma sembravano ore. Poi tutto in Anna si spense, quel poco di vita contorta che le era rimasta sfumò via. Set scese dalla Golf grigia, preso dal panico. Aveva appena investito una donna. Porca troia, pensò, proprio a me! Set guardò Camilla allarmato, come a cercare conforto, come a dirle che non l’aveva fatto apposta, che non l’aveva vista, che era sbucata fuori dal nulla, e che quella BMW parcheggiata in doppia fila gli copriva la visuale, non era colpa sua… Ma non disse nulla, restò lì impalato a farsi venire i conati di vomito. Camilla spalancò la bocca e iniziò a urlare, a disperarsi, a roteare su se stessa, le lacrime uscivano a flotte, ora si tirava i capelli, si malediva, era tutta colpa sua, pensava, se non fosse venuta qui, se non avesse parcheggiato la macchina in doppia fila, se non avesse attaccato briga… Intanto iniziavano ad aprirsi le imposte, qualcuno uscì dalla porta a vedere cosa fosse successo, cosa fosse stato quel boato. Uno dei ragazzi era andato a chiamare un’ambulanza, la polizia e, chissà il perché, pure i vigili del fuoco.



Epilogo


Dopo che i vigili del fuoco se ne andarono senza aver fatto nulla, l’ambulanza arrivò a recuperare il cadavere di Anna, la puttana che Camilla voleva vedere morta. Era stata accontentata. La polizia interrogò sia Camilla che Set, portandoli entrambi in centrale per capire meglio le dinamiche dell’incidente. Interrogò pure il vicinato, fra cui i ragazzi strafumati, che dopo essersi sbarazzati della marijuana, gettandola nel cesso e tirando lo sciacquone, raccontarono la scena a cui avevano assistito per filo e per segno.

Dopo circa un’ora che la polizia se ne fu andata, che la strada fu ripulita, che la Golf grigia e la BMW furono messe sotto sequestro, che il vicinato fu fatto tornare nelle proprie abitazioni, perché ormai non c’era veramente più niente da vedere, dopo tutto questo, verso le undici e mezza, Gioele rincasò. I suoi coinquilini erano ancora lì a parlare di quanto era accaduto sotto i loro occhi. Uno di loro esordì:

— Hey Joy, non hai idea di cos’è successo prima!

Ma Gioele non gli dava ascolto, camminava come uno zombie in mezzo a loro ed era conciato piuttosto male.

— Ma cosa cazzo ti è successo? — gli chiese una coinquilina, — Puzzi di merda! Cos’è sto odore?

— Merda. — rispose appunto Gioele, afflitto dalla vita, — Vi prego ragazzi, niente domande. È stata la serata più brutta della mia vita. Devo fumare, dov’è la mia erba?



FINE



© Elia Cristofoli (racconto depositato)

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